No, ovviamente prima o poi anche il vaccino Pfizer scade, ma ci siamo semplicemente resi conto che scade “un po’ più in là”.
Le fiale del vaccino anti-COVID prodotto da Pfizer avevano fino a qualche giorno fa una scadenza di 6 mesi, ma ora AIFA ha deciso di estenderla a 9. Perché? Forse non gli andava di dover comprare ancora dosi? Non sapevano bene dove buttare le fiale perché la raccolta differenziata è troppo difficile?
Niente di tutto ciò. Semplicemente sono arrivati dei dati nuovi e ci si è adeguati. Giusto per la cronaca, l’FDA ha adottato queste modalità di conservazione da fine agosto, quindi, a voler essere proprio onesti, siamo pure in ritardo rispetto all’aggiornamento delle istruzioni.
Breve storia della conservazione del vaccino Pfizer
Appena approvato nel dicembre 2020, il vaccino Pfizer aveva delle istruzioni di conservazione molto particolari per non dire proprio rognose. Doveva stare sempre tra i -60 e i -90°C e dopo essere scongelato per essere usato poteva essere conservato in frigo (tra 2 e 8°C) per un massimo di 5 giorni.
A maggio l’EMA ha comunicato che le istruzioni cambiavano, in quanto nuovi dati indicavano che il vaccino era in grado di tollerare anche temperature superiori ai -60/-90°C. Da allora il vaccino deve sì essere conservato tra -60 e -90°C per un massimo di sei mesi, ma gli vengono concessi fino a 15 giorni a -20°C. Può sembrare poco, ma questa modifica ha semplificato enormemente il trasporto delle dosi e permesso l’apertura di numerosi centri vaccinali in zone sprovviste dei super-freezer a -60°C. Non solo, ma anche la durata in frigo è stata estesa da 5 giorni a un mese, rendendo il vaccino Pfizer praticamente tanto conservabile quanto il latte fresco e permettendo le vaccinazioni a domicilio.
Veniamo quindi a noi, ovvero al prolungamento della validità fino a 9 mesi. La risposta è sempre la stessa: sono arrivati dei nuovi dati e si è visto che il vaccino conservato tra -60 e -90°C durava tranquillamente 9 mesi. Visto che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, abbiamo scritto una mail a Pfizer chiedendogli se fosse effettivamente così. Dato che a Pfizer sono molto simpatici, o almeno più delle segreterie universitarie, ci hanno pure risposto, come potete vedere nell’immagine in seguito.
Capire come conservare un farmaco
A questo punto probabilmente vi starete chiedendo: sì, ok, belli i dati nuovi, ma da dove li hanno tirati fuori?
La disciplina che si occupa di capire come conservare i farmaci al meglio si chiama “tecnologia farmaceutica”. Può sembrare una cosa banale, ma fare in modo che il principio attivo di un farmaco resti effettivamente attivo fino al momento dell’utilizzo è in realtà fondamentale. Potremmo fare molti discorsi su come la tecnologia farmaceutica si sia evoluta nei secoli, ma parliamo di come si fa ora.
Molto banalmente, si va a tentativi. Prendete il vostro candidato farmaco e lo mettete in diverse condizioni. Uno in frigo, uno nel freezer dove vostra nonna tiene il ragù di emergenza e uno sul cruscotto della macchina che avete lasciato sotto il sole ad agosto. Ogni tot mesi andate a controllare come sta e alla fine decidente la modalità di conservazione in cui si è effettivamente conservato meglio. Semplice, facile, lineare.
Come (probabilmente) ha fatto Pfizer
Partiamo dalle basi. Il principio attivo del vaccino Pfizer è l’mRNA che codifica la proteina S. Questo mRNA è contenuto dentro a delle nanoparticelle lipidiche che si occupano di recapitarlo integro all’interno delle nostre cellule. Queste nanoparticelle sono a loro volta sospese in una soluzione contenente vari sali.
Riassumendo: i sali proteggono le nanoparticelle lipidiche e le nanoparticelle lipidiche proteggono l’mRNA (che da Pfizer mio padre comprò).
Sorvolando sulla parte in cui Pfizer ha probabilmente speso una fortuna per capire quali fossero i sali e lipidi da usare, passiamo direttamente ai test di stabilità. “Test di stabilità” è un modo raffinato per dire “ha messo il vaccino a varie temperature, ha aspettato un po’ e ha controllato cosa succedeva”. Ovviamente ci sono due cose su cui Pfizer si è (molto probabilmente) concentrata: l’integrità dell’mRNA e la stabilità delle nanoparticelle. Se l’mRNA, che è l’ingrediente principale, si rompe, è facile capire che il vaccino non funzionerà. Allo stesso modo però, se l’mRNA resta intero ma le nanoparticelle si rompono non funzionerà comunque, perché il principio attivo non potrà entrare nelle cellule e fare il suo dovere.
Ok, avete messo la vostra fiala di vaccino nel frigo sono passati sei mesi: cosa si fa ora? AIFA vuole vedere dei dati nuovi per capire se le dosi che si è scordata in frigo dopo il compleanno di Palù può ancora usarle.
Le dimensioni contano
Prima cosa: vedere se le nanoparticelle sono rimaste della stessa misura, cosa che si può fare in vari modi. Un modo molto idiota sarebbe quello di usare un microscopio elettronico e cercarle a occhio, ma visto che a Pfizer probabilmente non sono degli idioti (a differenza di una certa coppia di italici no-vax) useranno delle tecniche tipo DLS o SLS. Senza scendere troppo nei dettagli, queste due tecniche si basano sulla capacità delle particelle di interagire con un fascio di luce che attraversa sulla soluzione. Le particelle si comportano un po’ come la palla di una discoteca e “riflettono” la luce in base alla loro composizione e dimensione. Vedendo quando e quanto viene riflessa la luce riuscite a capire quanto sono grandi le particelle.
Qualità, non solo quantità
Seconda cosa: le particelle devono essere ancora fatte degli stessi lipidi originali. In parole povere volete controllare che i sali si siano comportati bene e non siano andati a modificare chimicamente i lipidi. Per farlo Pfizer ha probabilmente usato una tecnica tanto precisa quanto bruta: la spettrometria di massa. Quello che si fa in questa tecnica è una delle cose preferite dagli scienziati: si spacca tutto e si vede di che pezzi è fatto. Prendete qualche goccia del vostro vaccino da testare, le nebulizzate (pure con un laser se ce l’avete) e spaccate tutto ciò che c’è in questa “nebbiolina di vaccino” tramite l’utilizzo di campi elettrici fortissimi. Sempre tramite campi elettrici, fate schiantare i pezzettini di ciò che si è rotto su un rilevatore, che vi dirà quanto pesavano e quale era la loro carica elettrica, creando un “profilo”.
Prendete il profilo ottenuto e lo confrontate con quello originale dei lipidi delle nanoparticelle. Facile no?
Sì, ma l’mRNA?
Terza cosa: l’mRNA deve essere integro. No mRNA, no vaccino, sì COVID. Per controllare se l’mRNA è intero ci sono almeno tre tecniche, in base a quanto potete spendere e a quanto siete pignoli. Di seguito le spieghiamo brevemente nella maniera più semplice possibile. Se non vi interessano i dettagli tecnici saltate pure a piè pari che tanto la parte importante di questo paragrafo l’avete già letta.
Prima: il sequenziamento. Indubbiamente la più costosa, ma anche la più completa. Andando a vedere l’esatta sequenza dell’mRNA non vedo solo se è intero, ma anche se è rimasto uguale chimicamente.
Seconda: la gel cromatografia. L’mRNA viene caricato in una colonna cromatografica, che altro non è che un tubo riempito di microscopiche palline di gel. Senza scendere troppo nei dettagli, una volta caricato l’mRNA lavate la colonna con un’apposita soluzione e vedete cosa esce dall’altro lato. I pezzi più grossi di mRNA, ovvero l’mRNA intero, usciranno per primi, perché essendo grandi non riescono a infilarsi in tutti gli spazi tra le palline di gel. I frammenti invece, più piccoli, escono dopo, perché si riescono a infilare in tutti gli spazi disponibili tra le biglie di gel, effettivamente “perdendosi per strada”.
Va da sè che se l’mRNA è intero vedo solo un segnale all’inizio e poi non vedo più niente, mentre se vedo molti segnali diversi vuol dire che l’mRNA si è degradato. Tecnica rapida ed efficace, ma a differenza del sequenziamento non ci dà informazioni sulle possibili modifiche chimiche dell’mRNA.
Terza: l’elettroforesi. L’mRNA è una molecola carica negativamente, e come tutte le molcole con questa caratteristica tende a muoversi verso le cariche positive. Se prendete l’mRNA del vaccino e lo mettete in un gel a cui applicate un campo elettrico, lui si muoverà verso il polo positivo. Se il nostro mRNA è ancora integro noi vedremo un solo “blocco” di mRNA che si muove tutto assieme, mentre se si è frammentato vedremo tanto “blocchetti” che si muovono in base alla loro grandezza (i più piccoli davanti perché si muovono più velocemente in quanto interagiscono meno col gel). Questa tecnica fa abbastanza schifo perché necessita di molto materiale di partenza ed è poco sensibile, quindi siamo moderatamente certi che Pfizer non l’abbia usata.
Dai freezer ai frighi
Quasi un anno fa, al momento dell’approvazione, i dati sulla conservazione e sulla stabilità del vaccino Pfizer erano pochi. Per ovvie ragioni, si era infatti deciso di approvarlo più in fretta possibile senza indagare se fosse effettivamente in grado di resistere anche a periodi o metodi di conservazione diversi. L’idea era semplice “intanto diciamo che dura sei mesi a -60°C perché di questo siamo sicuri, poi vediamo”. Qualche milione di vita salvata dopo, possiamo dire Pfizer ha fatto la scelta giusta: le prime dosi non sono state neanche tre mesi in frigo, e intanto hanno avuto tempo di fare gli studi per supportare l’estensione della “data di scadenza”.
Ci sorprenderemmo se tra un anno le modalità di conservazione del vaccino Pfizer arrivassero ad essere “due anni, pure nel frigo del baretto sotto casa”? No, perché evidentemente significherebbe che gli studi di stabilità (tutt’ora in aggiornamento) avranno dato risultati tali da giustificare questo cambio di policy.
Sappiamo che sembra strano, e che sembra che si prosegua a casaccio, ma la scienza (quella collegata alla medicina in particolare) è sempre stata così: si agisce basandosi sui dati disponibili in quel momento. Non ci si basa su paure infondate o inutili ottimismi. Ci si rimbocca le maniche, si fanno gli studi, e in caso si cambia idea (e strategia).
Se ti piace e ritieni utile quello che scriviamo puoi supportarci tramite il nostro Patreon.