È stato detto a marzo e ripetuto a settembre, ma che l’inquinamento abbia un ruolo nella diffusione di SARS-CoV-2 resta tutt’ora più una suggestiva ipotesi che un fatto dimostrato.
Era ancora più o meno metà marzo quando la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) ha annunciato di aver scoperto che il virus si era diffuso nella pianura padana grazie alle particelle di inquinamento portando come “prova” uno studio di correlazione tra numeri di contagi e livelli di PM10 nelle province più colpite.
Mentre noi criticammo tutto l’eco mediatico che ne derivò, Scienza in Rete criticò lo studio in sé, nei suoi metodi come nei dati che avevano deciso di usare, oltre al fatto che uno studio di correlazione non dimostra niente a livello causale.
D’estate infatti ci sono sia più attacchi di squali che maggiori vendite di gelati, e le due cose sono chiaramente correlate, ma non sono certo i gelati a rendere più appetitosi i bagnanti.
La partita sembrava quindi chiusa; certo, c’era un’affascinante correlazione, ma senza nessun dato molecolare a confermarla tale restava.
E invece no, a settembre la SIMA riprova a riproporre la sua teoria, forte anche di uno studio che ha trovato tracce dell’RNA virale in alcuni campioni atmosferici provenienti da Bergamo. Lo studio però si è limitato a rilevare la presenza del genoma virale, senza dimostrare se l’eventuale virus attaccato ai PM10 fosse effettivamente ancora in grado di infettare. Perfino gli autori, tra cui Valentina Torboli che conosciamo, ci tengono a precisare che non è possibile utilizzare le loro scoperte per dire che l’inquinamento.
Perché le dichiarazioni rivoluzionarie sono belle, ma portare i dati per sostenerle è più bello.
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