Biologi per la Scienza
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Il virus che muta è stato uno dei grandi tormentoni della pandemia, tirato in ballo sempre e comunque a caso e senza mai uno straccio di sequenziamento genetico come prova.
La prima a cercare di giocare questa carta è stata però Maria Rita Gismondo, che all’inizio definiva il virus “poco più di un’influenza”.
Mentre quindi a metà marzo in Lombardia si stavano toccando picchi di letalità del 15%, la Gismondo, piuttosto che ammettere di aver fatto un (madornale) errore all’inizio, ha deciso di giocarsi la carta della mutazione, una mossa tanto sensata quanto giocare l’asso danari con briscola di coppe. L’affermazione “forse è mutato, troppi morti in Lombardia” non era infatti solo inutilmente allarmistica, ma anche scientificamente inverosimile.
La Gismondo infatti non portava nessun dato di sequenziamento a supporto della sua tesi, e già questo basterebbe a mettere l’affermazione sullo stesso livello delle chiacchiere da bar, ma c’è di più.
La letalità viene infatti calcolata come “numero di morti” diviso “numero di positivi”, e va da sé che aumentando il numero di positivi (facendo molti tamponi per cercare anche gli asintomatici) il suo valore diminuirà; peccato però che all’epoca in Lombardia i tamponi venissero fatti praticamente solo a chi arrivava in ospedale, spesso con un quadro clinico già non bellissimo.
L’alta letalità lombarda di marzo e aprile era causata quindi da un artefatto statistico, ovvero i pochi tamponi fatti solo a chi stava già male e più probabilmente sarebbe morto, e non da una fantomatica e improbabile mutazione [3].
La mutazione letale era quindi solo una brutta ipotesi, non supportata da nessun dato, e sopratutto di cui avremmo potuto fare tranquillamente (e volentieri) a meno.


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