Il re delle cure miracolose, il plasma iperimmune.
“Re” non perché sia stato migliore delle altre cure proposte, ma perché quel titolo se l’è ritrovato senza meriti, prima di poterne avere e dopo aver dimostrato di non meritarne.
Il così detto plasma “iperimmune” non è nient’altro che il plasma dei soggetti guariti dal coronavirus che viene usato per trattare i malati.
L’idea di base è semplice, ai limiti del ridicolo: chi si ammala di SARS-CoV-2 a un certo punto sviluppa degli anticorpi contro il virus che circoleranno nel suo sangue anche dopo l’infezione. Una volta guarito, il suo sangue viene “filtrato” per separare globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, dal plasma, che contiene gli anticorpi contro SARS-CoV-2 assieme a tutte le altre proteine del sangue. Il plasma così ottenuto viene quindi infuso a chi è ancora malato, che potrà così combattere il virus sfruttando gli anticorpi di qualcun altro.
Così semplice e intuitivo che il medico Giuseppe De Donno non ha avuto nessuna difficoltà a farlo passare come la soluzione definitiva alla pandemia ancora prima della pubblicazione di qualsiasi dato. L’aggiunta di un pizzico di vittimismo poi è bastata a far partire un circo mediatico che Moira Orfei levati proprio.
La retorica del “non cielo dikono” è stata probabilmente la parte più imbarazzante della storia: la terapia al plasma è conosciuta dal 1901, quando Emil von Behring ci vinse il primo premio Nobel per la Medicina della storia.
Altro punto degno di imbarazzante nota è sicuramente il “ma il plasma è gratis”. Già, perché macchinari, operatori e sacche li regalano. Non solo, ma essendo il plasma letteralmente ottenuto dal sangue di un essere umano ci sono tutta una serie di test da farci per controllare che non contenga altre malattie perché sapete com’è, sarebbe brutto passare l’epatite a uno che ha già il COVID.
Già che siamo sull’argomento “derivato dal sangue di un’altra persona” però, è bene anche far notare che ogni persona risponde in maniera leggermente diversa alla stessa infezione, ragione per cui ad esempio non basta prendere il plasma, ma bisogna anche controllare quanti anticorpi questo effettivamente contiene. Spoiler: non tutti i guariti ne hanno una quantità sufficiente, anzi la maggior parte no.
Ogni donatore dona una “sacca”, e ogni malato ha bisogno di (almeno) mezza sacca, o almeno questo è quello che è riportato nello studio a cui ha collaborato De Donno. Lo studio, pubblicato quest’estate e che viene presentato come esplorativo, riporta una diminuzione di mortalità dal 15% al 6%: peccato che all’epoca fosse già abbastanza palese che la spaventosa mortalità italiana fosse un artefatto statistico. Sotto il profilo della sicurezza inoltre lo studio riporta che 4 pazienti hanno avuto effetti collaterali gravi, e che uno ha addirittura interrotto la terapia.
A ottobre finalmente viene pubblicato un articolo in cui, guardando vari studi, si definisce con sufficiente sicurezza che no, il plasma non funziona.
Storia finita? No, perché Le Iene a novembre decidono di riesumare il cadavere della plasmaterapia, portandolo in prima serata e dando prova ancora una volta di essere un programma decisamente a-scientifico. In pieno stile Stamina, si intervistano pazienti e medici e si chiedono opinioni, ma non è così che funziona la scienza, come fa anche notare l’immunologa Antonella Viola.
Tra i lati positivi dell’arrivo dei vaccini non c’è solo il fatto il liberarsi del virus, ma anche il non doversi più sorbire i grandi proclami per cure che sono solo delle belle idee, o che addirittura hanno già dimostrato di essere cattive.
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