Perché gli anticorpi monoclonali non possono fermare la pandemia?
Mentre gli studi sui vari vaccini procedono spediti, le sperimentazioni degli anticorpi monoclonali sembrano aver incontrato qualche ostacolo. In particolare, sembra che le terapie basate sui monoclonali non abbiano nessun effetto sui pazienti in terapia intensiva, ma che funzionino solo sui pazienti con pochi o nessun sintomo [1]. È una sorpresa? Non proprio. Gli anticorpi monoclonali attualmente in studio sono delle proteine che, proprio come farebbero gli anticorpi prodotti dal nostro corpo, legano la proteina spike del virus impedendogli di legarsi alle nostre cellule e quindi di infettarle.
Il motivo per cui non funzionano sui pazienti già in terapia intensiva (TI) è che per loro il problema principale non è più il virus, ma il danno che questo ha causato.
Il COVID-19, nella sua complessità patologica, può essere (molto semplicisticamente) diviso in due fasi: una prima fase “virale” in cui il virus entra nelle cellule, si riproduce e infetta altre cellule, e una “patologica” in cui le numerose cellule infettate cominciano a non fare più il loro dovere e ad essere uccise dal sistema immunitario causando vari tipi di danno al nostro corpo [2]. Va da sé quindi che dare dei monoclonali contro il virus a un paziente in cui l’infezione è già diffusa sarà poco utile. È un po’ come spegnere il fuoco una volta che ci si è bruciati la mano. La situazione non peggiora, ma la scottatura che ormai mi sono fatto la devo mettere sotto l’acqua fredda se voglio curarla.
Quindi, se gli anticorpi non funzionano per i pazienti in TI, perché funzionano su quelli con pochi sintomi?
Perché si suppone che questi siano ancora nella fase “virale”, quella in cui le cellule non sono state infettate in massa e l’anticorpo può ancora salvarle. Se avete un bambino piccolo (il virus) e volete evitare che si fracassi la testa su un mobile (le vostre cellule) potete fare tante cose, ma tra le opzioni c’è sicuramente quella di mettergli un casco (l’anticorpo). Et voilà, avete evitato che il vostro paziente passasse dalla fase “virale” a quella “patologica”, perché avete prevenuto il diffondersi dell’infezione nel suo corpo.
Qui però ci scontriamo con la realtà dei fatti: durante una pandemia abbiamo un’enormità di pazienti che risultano positivi, ma non sappiamo quali peggioreranno fino alla TI.
Certo, sappiamo che anziani e immunodepressi ad esempio rischiano di più, ma nulla di più accurato di una stima qualitativa. E’ impensabile trattare tutti i positivi con gli anticorpi monoclonali per due ragioni: primo, perché sono complicati da produrre e quindi non ce ne sarebbero abbastanza, e secondo, perché sono terribilmente costosi, con un costo nell’ordine delle migliaia di euro per singolo trattamento [3].
Nonostante si siano dimostrati potenzialmente utili ad evitare che la malattia peggiori se somministrati per tempo, non possiamo metterci a tirarli sui positivi come i gavettoni a Ferragosto. Almeno fino a quando non scopriremo come distinguere i positivi destinati alla TI da quelli che resteranno asintomatici. Senza un predittore di gravità della malattia è impensabile trattare tutti in via preventiva.
Il discorso sarebbe diverso se invece di una situazione pandemica avessimo solo dei rari focolai. Trovato un positivo facciamo un trattamento di monoclonali a lui/lei e ai suoi contatti stretti, evitando che qualcuno finisca in TI. Come gli astemi evitano il Veneto. In un certo senso, gli anticorpi sono come un fucile da cecchino. Molto utile se dovete gestire un piccolo gruppo di zombie, ma completamente inutile contro un’orda. E noi ora siamo nel mezzo dell’orda.
FONTI
[1] Eli Lilly Halts Antibody Trial in Hospitalized COVID-19 Patients
[2] Nature – COVID-19: towards understanding of pathogenesis
[3] Nature – COVID-19 antibodies on trial